Postfazione di Valeria Bianchi Mian
L’anima nel ventre
Se la conquista della coscienza di sé per l’eroe archetipico richiede principalmente la differenziazione dal corpo della madre (1), lo stesso non si può dire nel caso delle bambine. Dal menarca in poi, a quella Grande Madre che è origine e fine di ogni vita, le future donne ritornano, volenti o nolenti, a partire dal corpo, ed è una via lunga e irta di ostacoli il ritrovarsi e il riconoscersi.
Le differenze individuali saranno le arti con le quali tracciare un discorso identitario che possa dirsi originale; le armi avranno invece parole come “fluidità” da attribuire al genere. Le ragazze in crescita si ergeranno battagliere per correre lontane dai modelli familiari, per scrivere al contrario la semantica obbligata del femminile-maschile e osteggiare le leggi biologiche. Alcune, è inevitabile, soccomberanno al dogma degli abiti della domenica, alle ricette incise sulla pelle, che siano indicazioni per preparare una torta al cioccolato o decreti per far funzionare un matrimonio.
Quale donna non ha provato almeno una volta nella vita l’impulso di abbandonare le orme di colei che è stata Imperatrice del ventre, Papessa dell’allattamento, Forza da ammirare o Senza Nome algida e crudele?
Nostra madre, qualunque sia l’esito della nostra negazione, ci ha regalato una luce; se la lanterna che illumina la via ci mostrerà savie o stolte, se saremo cresciute esauste, perennemente incerte e insoddisfatte, possiamo per lo meno pensare di condividere con la Signora Genitrice le cosiddette colpe del misfatto. La donna che ci ha spalancato la porta della vita è e sempre sarà, ci piaccia oppure no, un Mondo – bello, orribile, devastato o fecondo che sia.
Non importa che un giorno si diventi madri a nostra volta, lasciando che la pancia si faccia colma di pianeti e di stelle per poi sgonfiarsi dopo nove mesi come un palloncino, e così via, tra pieni e vuoti, per ogni nascita e rinascita dell’altro/a-da-sé nel nostro, ripercorrendo il filo rosso della maternità possibile ad ogni giro di luna.
Non è scontata una gestazione carnale perché ci si possa riconoscere figlie nel regno della psiche. Altrove (2) ho scritto che il tema della gravidanza nell’arte mi riporta sempre alla mente l’immagine della fanciulla dai capelli rossi dipinta da Gustav Klimt (1903). La ricordo, Speranza, coinvolta nel sogno di un parto perfetto, lo sguardo pudico rivolto al pubblico, ignara della presenza, proprio lì, dietro la sua folta chioma, dell’abnorme inquietante feto nero simile a un girino. Le aspettative deluse delle puerpere generano mostri molto prima di conoscere i figli venuti al mondo. La creatura oscura nel quadro del pittore austriaco mi conduce a riflettere sulle tematiche che trovano casa, ventre, vaso, nel romanzo profondo e intenso di Cristina Basile.
“Le maghe del vuoto nel ventre” è un libro rosso vivo di pancia e scarlatto di tessuti, rosa di pelle e carminio di cuore, corredato da vivaci e bellissimi disegni, tutti opere della stessa autrice. Tra le parole invece è il colore nero che serpeggia sinuoso e assume il nome di “Nerina”, Ombra che irride Leyla, Angela e Cecilia, protagoniste di una narrazione matrilineare. Nerina parrebbe eredità transgenerazionale collettivamente nota, come il segreto che aleggia negli album in ogni interno di famiglia con traumi, non detti, speranze e delusioni.
Il filo rosso di questo romanzo di formazione mi appare, nella familiarità per il ventre, pancione lunare ripieno della creatura succulenta e contenitore vuoto di materia. Vaso alchemico, l’utero delle nonne, delle madri e delle figlie prende lo spazio delle parole e le fa proprie, le assaggia, le gusta, le mangia, le restituisce infine alle lettrici e ai lettori.
Non è necessario generare figli umani, così ho cominciato questa riflessione, per conoscere il sentimento della mancanza, che è come un palloncino che scoppia e il boato sarà sempre un botto improvviso, per quanto ci si possa preparare. La nascita di un essere umano è di per se stessa elemento scatenante la crisi tra il pieno e il vuoto, ogni qual volta nel corpo della psiche un sogno ha termine o un progetto finisce, quando va in porto un libro scritto con amore oppure un’impresa importante giunge alla meta. Alla gioia del risultato si oppone la caduta, sintonizzando l’umore sul blu – baby blu – che è la tonalità della riflessione di hillmaniana simbologia, un vissuto emotivo che accompagna tra la culla e il divano più donne di quante se ne possano immaginare. Se proviamo ad associare questo colore al momento della nascita di figli altri, i bambini di carta, le bambine progettuali, la questione non riguarda nemmeno solo noi donne, perché l’anima gravida del poeta, dello scrittore, del creativo può mostrare i propri segnali del blu. La delusione di Angela, la sua schiena che diventa muro di confine tra la madre e la neonata, è la diga che argina ogni possibilità di relazione e dà l’avvio alla sperimentazione del buco. Il vuoto regna.
Dopo averla partorita, Angela si era messa su un fianco, per nulla impaziente di vedere la vita calda appena generata. Guardandola, dal comodino in cui mi aveva lasciato, provai a capire cosa l’aveva spaventata tanto: dover rinunciare a dormire fuori dalla tenda da campeggio in estate, per godersi le stelle? Tutte cose che, probabilmente, non avrebbe rifatto.
Cristina Basile ci regala una storia matrilineare e io immagino che le donne da lei narrate possano essere insieme a noi lettori fruitrici del romanzo, perché, come in uno specchio, Angela, alla quale il medico suggerisce la lettura terapeutica per almeno due ore al giorno, e Cecilia possano dedicarsi alla cura del vaso.
Se nel ventre vige il vuoto, allora è apertura: stanza per gli affetti, scatola dei ricordi, pentola per il cibo, ed è luogo in cui possono ritrovare l’anima gli oggetti più cari. L’autrice lascia che un libro, lo specchio, l’abat-jour diventino protagonisti dello spazio, elementi che accompagnano la narrazione, punti sulla linea materna, “the motherline”, che è ricamo di connessioni, intreccio di senso nell’arazzo delle generazioni di donne. (3) Fuori dal corpo reificato, l’anima si differenzia e si accoccola nell’ambiente materializzandosi, esplorando la storia della protagonista per accompagnare il suo incedere formativo. La boccetta di profumo al thé verde, per esempio, si chiama Gaia come la Terra. Gaia esprime il proprio punto di vista rispetto alle riflessioni e alle avventure di Cecilia. “Le maghe del vuoto nel ventre” è un romanzo evolutivo illustrato che cresce e viaggia da Torino a Parigi e disegna la vita come un cerchio uroborico, un girotondo che parte dall’inizio e finisce alla chiusura ad anello, per aprirsi a un nuovo livello di coscienza tra anima e corpo – ma non voglio anticipare nulla.
Ogni figlia porta il proprio peso e la leggerezza del matrilineare in un corpo di carne e sangue, e nel sangue del ciclo mestruale potremo riconoscere la potenza del grido di Cecilia, maga del vuoto e del ventre.
Mossa da una strana fregola, presi la rincorsa e saltai.
- E. Neumann, Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, 1978
- A cura di S. Rosa e V. Bianchi Mian, Maternità marina, Terra d’ulivi edizioni, 2020
- Naomi Ruth Lowinsky, The Motherline, Every Woman’s Journey to Find Her Female Roots, 1995